L’audizione del potenziale teste in sede di investigazioni difensive: “boicottaggio” dell’istituto?

In Foto Francesco Giovannini.

È noto come uno degli istituti sulla carta più significativi nell’ambito delle c.d. “investigazioni difensive”, introdotte nel codice di procedura penale dal D.Lgs. n. 397 del 2.12.2000, sia rappresentato dalla possibilità conferita al difensore di assumere informazioni da un potenziale teste attraverso un meccanismo assimilabile a quello delle cd. “sommarie informazioni testimoniali” raccolte dal P.M. o dalla Polizia Giudiziaria, da verbalizzare con le forme di cui al comma 2 dell’art. 391 ter c.p.p.

La ratio ispiratrice di questo istituto è stata quella di cercare di attenuare l’importante (e, solo per certi versi, fisiologica) disparità tra la posizione della Pubblica Accusa e quella della Difesa nella fase delle indagini preliminari, caratterizzata da un evidente sbilanciamento di diritti, prerogative e mezzi in favore della prima rispetto alla seconda.

L’opportunità (rectius, l’esigenza) di munire la difesa di strumenti processuali più incisivi è stata ravvisata, oltre che dall’intenzione di realizzare un parziale riequilibrio tra le parti, principalmente sulla scorta di due ordini di considerazioni:  

  1. a dispetto della vocazione dichiaratamente “accusatoria” della versione originaria del nostro Codice di rito (modellata sulla centralità del dibattimento e ispirata ai modelli anglosassoni della cross-examination), le più rilevanti modifiche strutturali operate sullo stesso negli oltre trenta anni di sua vigenza sono state concepite per favorire l’ingresso di correttivi in chiave marcatamente “inquisitoria”, tanto da trasformare il Codice Vassalli in un sistema tendenzialmente misto, dove la componente “accusatoria” ha inesorabilmente perso terreno; 
  2. si è, purtroppo, rivelato una pia illusione il precetto codicistico (art. 358 c.p.p.) in base al quale il P.M. dovrebbe svolgere (anche) “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Di regola, infatti, il P.M. si comporta quale vera e propria parte, come tale piuttosto insensibile (quando non dichiaratamente ostile) alle istanze difensive e comunque poco propensa, nonostante il suo ruolo istituzionale, ad effettuare atti di indagini potenzialmente favorevoli all’indagato.

Detto questo, sul piano applicativo l’istituto in parola risente di un “baco” normativo che, di fatto, ne limita – in molti casi – l’efficacia: a differenza di quanto accade per il P.M. e la Polizia Giudiziaria, la persona convocata per rendere le dichiarazioni può non presentarsi al cospetto del difensore e/o non rendere, in tutto in parte, la dichiarazione (art. 391 bis, comma 3, lett. d). E’ chiaro come questa facoltà finisca con il paralizzare l’istituto, perché molto spesso la persona convocata si consulta con un difensore e si avvale di della facoltà stessa, frustrando le esigenze investigative. 

L’idea di base è la seguente: se chiama il P.M. o la Polizia Giudiziaria bisogna mettersi sugli attenti, se chiama il difensore è solo una scocciatura da evitare. 

Né a dire che questa circostanza (diritto di non comparire/non rendere dichiarazioni) sarebbe efficacemente contemperata dal fatto che il difensore, a fronte del rifiuto a comparire del potenziale teste, ha il diritto (art. 391 bis, commi 10 e 11) di farlo sentire dal P.M. o dal G.i.p. Innanzitutto, gli avvocati sono piuttosto restii (comprensibilmente) ad avvalersi di questa possibilità, perchè il teste che non compare su richiesta del difensore è percepito (a torto o a ragione) come teste potenzialmente “ostile”; in secondo luogo, perché il teste sentito dinanzi al magistrato (specie il P.M.) può sentirsi meno libero nella sua deposizione, magari perché desideroso di non “scontentare” il P.M. che lo ascolta/esamina insieme al difensore. Beninteso, si tratta sempre di chiedere e ottenere la verità, a prescindere da chi ponga le domande al potenziale teste; è noto a tutti, però, come la persona che compare davanti al P.M. o alla Polizia si senta più condizionato, e, per certi versi, intimorito rispetto a quando si presenti dinanzi al (solo) difensore.

A questo si deve aggiungere un altro potenziale “baco”, questa volta derivante dall’applicazione giurisprudenziale dell’art. 391 bis, comma 10, c.p.p. 

Il tenore letterale della norma (“….. il Pubblico Ministero, su richiesta del difensore, ne dispone l’audizione [della persona che si sia avvalsa della facoltà di non comparire dinanzi al difensore: N.d.R.]) sembra inequivocamente fare riferimento ad un vero e proprio diritto della difesa a cui il P.M. non possa frapporre ostacoli; se il difensore chiede l’audizione, il P.M. “la dispone”. Senonchè, secondo la giurisprudenza (vedi, ad esempio, Cass., III^ Sezione Penale, n. 1399 del 14.12.2011), non si sarebbe in presenza di alcun automatismo, nel senso che il P.M. non sarebbe obbligato a dar corso alla richiesta proveniente dalla difesa; sarebbe onere di quest’ultima dimostrare come l’audizione in parola sia utile o addirittura necessaria, riportando anticipatamente i temi di prova.

Sono evidenti i problemi che scaturiscono da tutto ciò. A parte la circostanza che il P.M. e la Polizia Giudiziaria non anticipano affatto (né al teste né, tantomeno, al difensore) i temi delle domande che intendono fare al teste, in certi casi per il difensore non è agevole individuare anticipatamente e compiutamente i temi di esame, anche perché può capitare che la testimonianza abbia connotati, almeno in parte, esplorativi. A ciò si aggiunga che, così intesa, la norma si espone ad un rischio di “boicottaggio”, perché la giurisprudenza ha precisato che l’eventuale diniego del P.M. a fronte della richiesta ex art. 391 bis, comma 10, c.p.p., non è suscettibile di impugnazione da parte del difensore, per cui, se il P.M. la respinge, la richiesta medesima non avrà seguito anche qualora sia stata ampiamente e puntualmente motivata.

Riassumendo:

  • il difensore, al contrario del P.M. e della Polizia Giudiziaria, non può obbligare la persona informata sui fatti a rendere dichiarazioni;
  • in caso di diniego del potenziale teste, il difensore può chiedere al P.M. (o al G.i.p. in sede di incidente probatorio) di convocarlo, ma il P.M. può ritenere inutile, superflua o non adeguatamente motivata la richiesta della difesa, e questa sua (unilaterale) valutazione non è soggetta ad alcuna forma di impugnazione. 

Risulta agevole comprendere l’assunto di partenza: le “sommarie informazioni” assunte dal difensore costituiscono un istituto che appare “boicottabile”, sia a causa di una carenza legislativa (dato che non è previsto l’obbligo del teste di comparire e rispondere al difensore), sia facendo perno sulla giurisprudenza, che ha introdotto un sindacato sulla richiesta difensiva ex art. 391 bis, comma 10, c.p.p. che non sembra conforme al dettato normativo: il risultato di tutto ciò è il concreto rischio che l’“arma” in mano alla difesa si riveli quantomeno “spuntata” o, comunque, inefficace.  

Forse il Legislatore avrebbe potuto agire con più coraggio. Se si voleva davvero rafforzare la funzione e l’operato della difesa anche in questa delicatissima fase del procedimento penale (ci si riferisce alle indagini preliminari, anche se è bene ricordare che le investigazioni difensive possono essere effettuate anche successivamente o, a certe condizioni, persino prima dell’apertura del procedimento stesso), bisognava andare fino in fondo; la funzione della Difesa ha basilare rilevanza costituzionale e, almeno a certi fini e per certi istituti, per creare un’effettiva equiparazione tra Accusa e Difesa occorrerebbe munire quest’ultima di poteri autoritativi che rendano effettivo il suo operato. Prevedere il diritto della difesa di esaminare autonomamente i potenziali testi e, al contempo, consentire a questi ultimi di sottrarsi senza colpo ferire all’incombente non appare molto coerente.

Qualcuno potrebbe obiettare che prevedere l’obbligo del potenziale teste di comparire e rispondere al difensore a seguito di rituale richiesta ex art. 391 bis c.p.p. potrebbe aprire le porte a comportamenti strumentali della Difesa, che potrebbe citare chiunque al solo fine di “ingolfare” l’andamento del procedimento. 

L’argomento risentirebbe del malcelato pregiudizio legato alla funzione e al ruolo dell’avvocato, concepito non come soggetto che collabora alla ricerca e all’accertamento della verità, ma come soggetto talvolta incline a ritardare (se non proprio ad ostacolare) il naturale corso della Giustizia. Non credo che questo pregiudizio debba prevalere; eventuali abusi dello strumento processuale in parola possono sempre essere adeguatamente perseguiti, nei casi più gravi anche a livello penale, sempre a livello disciplinare. In ogni caso, il procedimento penale prosegue con le sue cadenze e le sue fasi, per cui non ritengo che lo sviluppo dello stesso possa essere ostacolato da un consistente ricorso alle investigazioni difensive; al contrario, un corretto e professionale utilizzo di tali investigazioni potrebbe contribuire in maniera non irrilevante alla deflazione dei procedimenti penali, alcuni dei quali sono portati avanti per pura inerzia e senza un reale fondamento.

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